Curiosità

Sant'Agata a Fleri

Passò il 1942 con la guerra che infuriava su tutti i fronti, dalla Russia ai deserti africani, ma in Sicilia e Catania non succedette quasi niente e trascorsero anche velocemente i primi mesi del 1943, anno denso di avvenimenti, presenti ancora nella memoria di parecchi abitanti del paese e di Catania. A cominciare da aprile cominciarono a giungere nei vari paesi etnei (sicuri per il momento e lontani, ma non troppo, dalla guerra) gli sfollati da Catania, obiettivo principale di bombardamenti continui da parte degli Inglesi ed Americani . Ciò spinse Mons. Carcitotto, Vicario generale, a sfollare e a trovare rifugio con alcuni parenti nella canonica di Fleri, (19-4-1943) ospiti inattesi ma graditi del canonico Ignazio Messina, che si adoperò in tutti i modi per rendere loro meno difficile il soggiorno in paese. Così allo svuotamento della città corrispose proporzionalmente un aumento della popolazione di tutti i centri vicini. Anche Fleri diventò così centro di raccolta di molti cittadini catanesi, che in breve raggiunsero la bella cifra di quasi 2000 unità ospitati da parenti, amici e affittuari vari. Tutte le abitazioni di Fleri, comprese le numerose case rurali dei dintorni risultarono occupate. C’era penuria di cibo, molti dovevano fare salti mortali per mettere insieme pranzo e cena. Chi riusciva a procurarsi un poco di frumento, farina oppure olio o fave era fortunato e passava momenti felici se così potevano chiamarsi quei giorni di guerra, in cui si poteva notare anche la mancanza delle cose più elementari di tutti i giorni. A questo punto la storia di Fleri si innesta, per una serie di eventi superiori, con le vicende belliche di una grande città come Catania. Toccherà infatti alla rurale e piccola chiesa di Fleri custodire gelosamente parte del tesoro e i preziosissimi reliquiari di S. Agata, per evitare che cadessero nelle mani di estranei o dei Tedeschi, in linea di difesa e pronti per una presumibile ritirata. Facevano paura anche gli alleati specie gli Inglesi, avidi di bottino e capaci di qualunque azione, come si era potuto notare in altri casi. A partire dai bombardamenti del 16 aprile 1943, in Arcivescovado a Catania, cominciarono le preoccupazioni per le ormai terribili e frequenti incursioni aeree anglo-americane che avevano già rovinato il Fercolo e avrebbero potuto distruggere altri locali, compresa la stanza del tesoro di S. Agata. Si pensò quindi, in continue e lunghe riunioni in curia, a salvare e mettere al sicuro dai bombardamenti e da eventuali ladri e saccheggi, sia il tesoro che i preziosi reliquiari della Santa, tanto cari ai cittadini catanesi. Erano questi i pensieri che si agitavano continuamente in quei giorni nella mente dell’Arcivescovo Mons. Carmelo Patanè e dei suoi principali collaboratori. Non era affatto facile prevedere gli sviluppi futuri delle vicende belliche che ormai stavano prendendo una piega favorevole per gli Alleati e non era affatto semplice decidere cosa fare del tesoro e dei reliquiari, beni inestimabili della Chiesa catanese. Sarebbe stato l’incalzare degli avvenimenti bellici a spingere l’Arcivescovo e il Vicario a prendere quelle decisioni, che per fortuna, unite al concomitante svolgersi dei fatti esterni, risultarono le più giuste. Cosicché tesoro e reliquiari furono salvati da eventuali malintenzionati sia locali che stranieri. Le vicende che seguirono presero due strade diverse: il tesoro ossia la gran parte di esso, specie i gioielli, finì, dopo diversi spostamenti a San Giovanni La Punta, prima nel seminario estivo e poi nascosto presso le Orsoline, mentre i reliquari ed altri oggetti preziosi e sacri finirono in una oscura cisterna, dietro la Chiesa di Fleri. Mi occuperò più del secondo fatto, essendo quello che si intrecciò compiutamente e misteriosamente per certi versi, con la storia del paese.

Questi fatti del 1943, ai nostri giorni, risultano poco conosciuti e anche misteriosi in quanto prima avvenuti silenziosamente, dopo, poco propagandati. Oggi esistono pochi documenti validi per eventuali chiarimenti storici, molto necessari perché alcune testimonianze risultano controverse.
Trattano di questi eventi un articolo di Monsignor G. Scalia “Il tesoro di S. Agata negli eventi bellici del 1943”; gli appunti della “Cronaca” redatta da Padre Messina, più alcuni articoli de “La Sicilia” e di altri giornali, pubblicati postumi da V. Consoli e da altri studiosi di quegli eventi. Poca cosa per fatti, che in quegli anni difficili, fecero tremare le autorità ecclesiastiche catanesi e tutti coloro, pochi in verità, che conoscevano la difficile situazione del tesoro, delle Reliquie e dei beni preziosi di proprietà della Santa catanese. Ho cercato di ricostruire la vera parte che ebbe Fleri in queste vicende storiche del ’43, documentandomi e basandomi su tutti gli articoli e libri (pochi) già pubblicati e parlando con gli ultimi testimoni ancora in vita che, pur ignorando che cosa stesse veramente allora accadendo, si ritrovarono coinvolti in quella tragica situazione.
L’estate del’43, rimase impressa in tutti i siciliani e specialmente negli abitanti di Fleri, che vissero direttamente ed indirettamente tutti gli avvenimenti accaduti in quei caotici giorni a Catania e nei centri vicini. Spinti dall’incalzare degli avvenimenti che precipitavano di giorno in giorno, all’inizio del mese di aprile, l’arcivescovo Patanè e Mons. Carciotto decisero di far seppellire buona parte del tesoro in una nicchia nella Cattedrale, dietro la cameretta di S. Agata e dopo cominciarono a pensare dove e come nascondere segretamente i “sei reliquiari fatti costruire a Limoges (Francia) nel 1376 (due contenenti le mani e le braccia, altrettanti i femori, altri due i piedi con le gambe fino al ginocchio) nonché quelli di epoca posteriore con la mammella e il velo della Patrona”. Questi sacri resti, più alcuni documenti storici di elevato valore sacro e culturale, vennero rinchiusi in una modesta cassa di legno, la quale venne posta inizialmente in una stanza adibita a ripostiglio, in mezzo a tante cianfrusaglie, affinché non desse molto nell’occhio.
A S. Giovanni La Punta intanto venne trasportata la biblioteca del Seminario, per salvarla così da distruzione certa, mentre il Vicario generale, Mons. Carciotto, “fece trasportare tutto il materiale (l’Archivio della Curia) sempre in segreto, nella chiesa parrocchiale di S. Giovanni Galermo” .Tutto questo piano, architettato per nascondere o trasportare altrove l’importante biblioteca e le reliquie, fu completato nei primi mesi del ’43, a far precipitare gli eventi furono gli indiscriminati bombardamenti del mese di aprile che distrussero mezza Catania e provocarono numerose vittime tra i civili. Spinto dall’accavallarsi delle vicende belliche, l’arcivescovo Mons. Patanè, per mezzo di Mons. Pennisi, Rettore del Seminario, aveva fatto spargere la voce ad arte che reliquiari e gioielli della Santa avevano preso la via di Roma e si trovavano al sicuro nei sotterranei del Vaticano. Era una bugia ma, non si poteva fare altrimenti perché ormai gli eventi incalzavano e tutto era in uno stato di somma precarietà. Questo accadeva alla fine dell’aprile 1943.
Fu l’incombente pericolo a spingere le Autorità ecclesiastiche e Mons. Carciotto in prima persona, a trovare una più sicura soluzione per le Reliquie di S. Agata,
poiché Catania era ormai preda di bande di saccheggiatori e c’era pericolo che anche la Cattedrale ed edifici vicini venissero profanati e spogliati di tutto. Mons. Carciotto, che dal 19 aprile si trovava ospite di padre Messina nella spaziosa e nuova canonica, una mattina, parlando col sacerdote, spostò il discorso volontariamente sulle reliquie e sulla difficoltà di preservarle da atti inconsulti. Voleva conoscere l’opinione del canonico sulla cui fedeltà ed obbedienza non aveva alcun dubbio. Padre Messina sapeva che dietro la nicchia della Madonna esisteva una vecchia cisterna ormai senz’acqua, utilizzata a volte come ripostiglio, per cui propose al Vicario di nascondervi le Reliquie. Quest’ultimo ci pensò su, fece un sopralluogo nella cisterna e si convinse della fattibilità della proposta. Alquanto soddisfatto scese a S. Giovanni La Punta a conferire con Mons. Patanè, anche lui sfollato nel seminario estivo, e a cui toccavano la responsabilità e la decisione ultima per le Reliquie.
La soluzione trovata da Padre Ignazio parve la migliore, per cui l’Arcivescovo accettò in pieno la proposta di nascondere i reliquiari nella chiesa di Fleri. Si trattava adesso di trovare chi potesse trasportare le Reliquie nel piccolo centro etneo. Il paese in quel periodo (maggio 1943) era zeppo di sfollati catanesi, appartenenti a tutte le estrazioni sociali. Oltre a povera gente e piccoli borghesi che avevano trovato riparo ed ospitalità ovunque, c’erano personalità di spicco ed intere famiglie di nobili. Erano sfollati da Catania e già presenti in paese nelle loro case di villeggiatura i duchi di Misterbianco 16, la famiglia dei Ferrarotto-Paternò, e loro parenti e l’intera famiglia dei Francica Nava comprendente il prof. Greco, la marchesa di Sant’Alfano ed il barone Gaetano Nava, nipote del Cardinale, con l’intera servitù. Anche la villa del barone Torresi era zeppa di parenti sfollati dalla città.
Padre Messina esaminò insieme al Vicario tutte le possibili soluzioni e le varie persone che avrebbero potuto fare al caso loro. Dopo aver scartato parecchie possibilità, certamente non ottimali per quel particolare momento, il canonico sembrava alquanto scoraggiato, quando all’improvviso si illuminò in viso: era convinto di aver trovato la persona adatta che avrebbe risolto il delicato problema del trasporto a Fleri di tutto il prezioso materiale. Chi meglio del barone, nobiluomo di assoluta fiducia, pensò il curato avrebbe potuto trasportare i reliquiari in paese? Chi meglio di lui avrebbe ben operato e mantenuto il segreto? Discusso il grave problema e chiariti alcuni punti controversi il Canonico e Mons. Carciotto informarono in tutta segretezza il nobiluomo, persona sempre vicina, come tutta la famiglia Nava nel passato, ai bisogni della Chiesa catanese e di Fleri in particolare. Il barone Gaetano Francica Nava non perse tempo e diede subito la disponibilità di due automobili, fornite di permessi per uscire fuori dalla città. Dopo una breve discussione fu concordato pure il giorno dell’operazione.
Il 14 maggio all’alba, dalla villa Francica Nava di Fleri, partirono due automobili: un’Aprilia colore avana guidato da Carmelo Busà, autista fidatissimo di casa Nava, con il barone ed il Vicario, ed una Lancia guidata da Leopoldo Fossati, altra persona di piena fiducia della famiglia. Il viaggio fu tranquillo in quanto non vi furono soste forzate (guasti o forature possibili)
ed incontri sgraditi. Cosicché il piccolo corteo entrò in Catania dal Tondo Gioieni ed attraversò la Via Etnea, giunse nel cortile dell’Arcivescovado. Qui, senza perdere tempo, fu caricata la pesante cassa con i Reliquiari, il quadro
della Madonna delle Grazie, alcune cassette con preziosi della stessa Madonna e 4 calici d’oro di pregevole fattura. In tutta fretta, le due auto ripartirono per Fleri dove giunsero alle ore 10.00: era il 14 maggio 1943. Il barone chiamò due castaldi di sua fiducia, Orazio Di Salvo ed Agostino Sapuppo, i quali provvidero a trasportare dalla macchina la pesante cassa con le Reliquie, senza immaginare minimamente cosa contenesse. Poi la calarono nella grande buca della cisterna dove vennero pure nascosti i calici d’oro e parte delle cassette del tesoro della Madonna delle Grazie. Tutto fu fatto in silenzio ed assoluta segretezza. Solo il barone, Padre Ignazio ed il Vicario sapevano cosa contenesse la cassa grande. Gli altri pensavano che fossero gioie e preziosi della famiglia Nava, portati in paese per essere al sicuro da eventuali razzie, probabili in quei momenti.
A questo punto la ricostruzione dei fatti è controversa.
La versione del barone Nava fin qui riportata non collima pienamente con altre dichiarazioni fatte da persone che dovevano conoscere come si svolsero veramente gli avvenimenti. Infatti Padre Ignazio in un’intervista del 13 agosto 1961, al giornalista F. Granata, dichiarò: “Il 14 maggio ’43 verso le ore 10 del mattino furono portate a Fleri da Mons. Carciotto con un’automobile della marchesa di S. Alfano, guidata dall’autista di Mons. Bentivoglio, le Reliquie di Sant’Agata, 4 calici d’oro, tra cui quello donato alla Cattedrale di Catania da Pio X e la rete con i doni più cospicui, che nei giorni solenni, si suole esporre davanti al quadro con l’immagine della Madonna delle Grazie ”.
Tale dichiarazione, infatti, fu avvalorata maggiormente dalla testimonianza dell’autista dell’Arcivescovo, che confermò in pieno le parole di don Ignazio. La vicenda così si ingarbuglia e sorgono quindi dei grossi dubbi: le automobili erano due oppure una sola? Da chi erano guidate? Tenendo fede alle parole dell’ex autista suddetto, si può ipotizzare un fatto ben preciso: alcune persone, che ricoprirono qualche parte nel trasporto dei Sacri Resti da Catania a Fleri, ebbero l’intenzione di farsi passare per protagonisti del fatto e imbastirono dichiarazioni ai giornalisti, che cercavano in tutti i modi di scoprire come era veramente andata la vicenda delle Reliquie in quei giorni. Il risultato fu che le troppe dichiarazioni, rilasciate con facilità e spesso controverse, ingarbugliarono i fatti e resero più complicata tutta la ricostruzione postuma che tentarono di fare storici e studiosi. Una cosa era certa: il 14 maggio in un modo o nell’altro, con qualunque macchina, le Sacre Reliquie si trovavano in una stanza della canonica della Chiesa di Fleri. Bisognava sotterrarle al più presto possibile: era questo l’impellente bisogno di Padre Ignazio e del Vicario. E anche qui le versioni risultano diverse e contrastanti. Questi chiaroscuri nella vicenda e queste numerose versioni degli eventi nascono principalmente perché tutto si svolse nel più assoluto segreto e con il totale silenzio dei piccoli o maggiori protagonisti di questi avvenimenti. Non essendoci stata alcuna forma di pubblicità, dopo divenne difficile la ricostruzione dei fatti, anche perché gli interpellati testimoni fecero delle dichiarazioni in cui, senza scopo di protagonismo, accrescevano qualche piccolo loro merito, distogliendo così dalla vera realtà dei fatti coloro i quali per motivi diversi si occuparono della vicenda.
Il giornalista Consoli, per avere un quadro più completo della situazione,
intervistò in un suo pregevole servizio, apparso sul giornale “La Sicilia”, nel 1967, anche uno dei testimoni diretti del fatto, Orazio Di Salvo, già castaldo del Barone Francica Nava e persona molto conosciuta a Fleri, il quale così descrisse il fatto: “A tarda sera, erano circa le 22, io e mio cognato Agostino Sapuppo (anche lui si trovava in licenza di convalescenza ed era rientrato da poco dalla Grecia, dopo aveva combattuto nei reparti della fanteria), prelevammo dalla macchina della marchesa di S. Alfano una grande cassa. Il barone ci aveva detto che avremmo dovuto compiere questa operazione in gran segreto, confidandoci che si trattava di oggetti preziosi della sua famiglia. Solo parecchi mesi dopo scoprimmo la verità e cioè che là dentro c’erano invece le Reliquie della Patrona di Catania. Portammo la cassa nella chiesa e di qui nella cisterna dove avevamo già approntato, togliendo le grosse pietre che vi erano state ammassate, un grosso fosso nel quale calammo la cassa e le altre cassette. Ricoprimmo il tutto con uno strato di pietre sulle quali ponemmo poi delle fascine”.
Continua il Consoli con l’intervista a Maria Torrisi Di Salvo, moglie di Orazio: “Ricordo perfettamente che mio marito e Agostino Sapuppo nascosero nella cisterna una grande cassa di legno. Il fatto avvenne di sera. Mio marito rientrò a casa a notte inoltrata: era stanchissimo e mi disse appunto che nel vecchio pozzo dietro l’altare aveva seppellito sotto le pietre tanta roba, cose del Barone, aggiunse. Solo più tardi, quando ormai la guerra era ormai lontana da noi, ci venne detta la verità”.
Dopo la prima sepoltura nella cisterna dei resti mortali di S. Agata, per i religiosi presenti nella canonica ci fu un periodo di vigilanza tranquilla, di quasi riposo che durò fino al 10 luglio. Queste le varie azioni che interessarono le Reliquie, mentre esternamente la vita continuò in modo normale, nel periodo sopra accennato. Non si seppe niente di niente, poiché la segretezza di quei fatti in quei giorni e anche dopo fu totale e assoluta. Nessuno di tutti quelli che sapevano si lasciò sfuggire dalla bocca qualcosa sul segreto della cisterna dietro l’abside. Alcuni giorni dopo poiché la radio non aveva più parlato di sbarchi incombenti, Padre Messina, aiutato dagli stessi castaldi, riportò fuori la cassa delle Reliquie, temendo che la forte umidità, presente nella cisterna, avrebbe potuto recar danni al contenuto. Per aver tutto sott’occhio la fece portare nel suo studio mentre parte delle cassette della Madonna delle Grazie furono riposte nella stanza riservata al Vicario. Il resto delle cassette fu nascosto dentro un buco, che serviva da sfiatatoio, nel palmento vicino dei Francica Nava.
A questo punto gli eventi bellici incalzarono. Ad un mese di relativa tranquillità (giugno), ma con bombardamenti senza sosta in altre parti della Sicilia Orientale, seguì il mese di luglio, densissimo di avvenimenti che si succedettero uno dopo l’altro.

Gli Alleati si avvicinavano alla penisola italiana, pronti allo sbarco, che avvenne la notte del 10 luglio. Così esordì il bollettino di guerra 1141 diffuso dall’E.I.A.R. la mattina dopo: “Il nemico ha iniziato questa notte con l’appoggio di poderose formazioni navali ed aeree e con lancio di reparti paracadutisti, i combattimenti sono in corso lungo la fascia costiera
sud-orientale”.
Infatti, erano sbarcati nella costa meridionale dell’isola Inglesi, Americani, Scozzesi e forze di colore francesi, i tristemente famosi “Tabor” (battaglioni marocchini). Avuta ben presto notizia dello sbarco alleato nella Sicilia sud- orientale, lo stesso Padre Ignazio annotò nella “Cronaca” con una punta di dolore, intimo e atavico, forse derivante dalle tante e tante invasioni dell’isola nel corso dei secoli: “10 luglio il suolo sacro di Sicilia viene invaso dalle truppe alleate e ogni giorno si sente il cannone, la mitraglia e gli aerei sempre più vicini”. Nei primi giorni di agosto, venuta meno la resistenza agli Alleati, anche i paesi etnei cominciarono a soffrire per cannoneggiamenti e mitragliamenti aerei. Ce ne offre testimonianza sempre la “Cronaca” di don Ignazio: “Il 3 agosto, mitragliamento a Pisano e Fleri con lancio di bombe”. Intanto gli Inglesi si avvicinavano al loro primo grande obiettivo: Catania. La mattina del 5 agosto i fanti della 50ˆ divisione entravano nella città etnea.
Nel pomeriggio alcuni sfollati giunsero a Fleri e così Padre Messina apprese la notizia, foriera di future giornate difficili per tutti i paesi etnei che si trovavano lungo la direttrice di avanzata degli Inglesi, contrastati passo per passo dai Tedeschi in ritirata, prima nei paesi orientali dell’Etna e poi nelle strade verso Messina. Per questo Padre Ignazio annotò nella “Cronaca”: “Il 5 agosto le truppe alleate entrarono in Catania. Nella stanza di studio [di padre Messina] dietro intimazione con pistola alla mano, un ufficiale tedesco prende possesso della Canonica, per farne un posto di medicazione. Bisogna cedere!”.
Infatti, i Tedeschi avevano saputo che una stanza della canonica era stata utilizzata dal medico Prof. Francesco Greco come sommario posto di medicazione per l’esercito italiano, sin dal giugno passato. Con gli Inglesi sul punto di arrivare e i Tedeschi in ritirata, ma decisi a combattere strenuamente, il momento risultava abbastanza difficile per il paese e specie per coloro che, come Padre Ignazio e il Vicario, avevano enormi problemi da risolvere: soprattutto dove e come nascondere le Reliquie. Gli Alleati volevano sgombrare le strade principali dai Tedeschi al più presto possibile, mentre questi ultimi volevano trattenerle e per impedire l’avanzata dei nemici, distruggevano ponti e strade e minavano i punti nevralgici e di grande comunicazione, in un periodo in cui la rete stradale etnea era poco sviluppata e mal ridotta come fondo. Il crocevia di Fleri, nodo viario strategicamente importante, fu occupato dai Tedeschi in fase di ritiro con l’intenzione di farne un caposaldo, perché era l’unica arteria che portasse ad est verso Giarre e a nord verso Randazzo indi Messina. Il parroco, preoccupato da questa inaspettata piega degli avvenimenti, ma fermamente deciso a non cedere, cominciò a tergiversare per prendere tempo, promettendo all’ufficiale tedesco che era entrato nella canonica la stanza richiesta.
Questi, soddisfatto si allontanò per riferire ai superiori e per ritornare più tardi con le attrezzature mediche. Non c’era più tempo da perdere pensò allora Padre Ignazio uscendo dalla canonica: bisognava farsi aiutare da qualcuno a nascondere di nuovo la pesante cassa. Il 5 agosto, dopo che i Tedeschi si erano allontanati temporaneamente, la canonica, la sacrestia e l’antica cisterna divennero i luoghi di una velocissima e segreta opera di occultamento dei Reliquiari e di tutto ciò che poteva far gola sia ai Tedeschi che agli Inglesi . In quel momento a causa degli avvenimenti e per il forte caldo in giro non c’era nessuno, ma per fortuna stava arrivando un suo parrocchiano fidatissimo, il giovane, allora militare, Giuseppe Pappalardo. Il canonico prese la palla al balzo: portò il giovane in chiesa e gli fece giurare su Gesù Sacramento di non dire a nessuno quello che avrebbe visto e fatto fra poco. A questo giuramento estemporaneo era presente Mons.Carciotto. Dopo il giuramento il canonico rivelò al giovane Pappalardo che in quelle casse c’erano le Reliquie di S. Agata, parte del tesoro e il quadro della Madonna delle Grazie e i calici della Cattedrale. Bisognava sotterrarle al più presto possibile per cui le casse, con le dovute cautele, furono calate nella cisterna vuota e ricoperte con i fasci di sarmenti secchi. Questa seconda operazione di seppellimento era finita da alcune ore, quando si presentarono di nuovo i Tedeschi, ai quali il canonico consegnò senza resistenza alcuna, per non destare eventuali sospetti, una stanza del pianoterra. Da quel momento la canonica divenne posto di medicazione e centro operativo principale di difesa dei Tedeschi, ai quali non sfuggiva il fatto che il borgo di Fleri stava diventando un nodo importantissimo sia tatticamente che strategicamente, nel tentativo di frenare l’avanzata alleata. Giorno 7 Don Ignazio dopo tante insistenze di amici e parrocchiano, si decise ad andarsene poco lontano dalla chiesa, per essere più al sicuro, presso una costruzione agricola nel fondo dei Trigona. I Tedeschi, che già avevano occupato il paese e si erano fortificati al bivio, avevano ordinato ai pochi presenti di allontanarsi dal quartiere perché c’era pericolo, qualora gli Alleati si fossero avvicinati al paese prima del previsto. Con il cuore colmo di tristezza e di apprensione per l’eventuale sorte delle Reliquie sepolte, il canonico partì verso il palmento e si portò dietro la “Cronaca”.
Appena ebbe un poco di tempo libero buttò giù queste parole: “7 agosto alle ore 12.30 si inizia un viaggio doloroso, perché ci viene imposto dai Tedeschi di lasciare la casa, per il pericolo delle mine poste nel bivio. Non avrei voluto lasciare Gesù Sacramento e le Reliquie di S. Agata, ma il Vicario mi convince e si va nel vicino palmento nuovo del Duca di Misterbianco” 34dove si erano rifugiate già altre persone: tutta la famiglia Francica Nava e le famiglie dei massari, rifornite continuamente di acqua e viveri da Orazio Di Salvo e Agostino Sapuppo, da dove, spaventati dalle notizie che volevano il paese in procinto di saltare in aria, si rifugiarono in un altro complesso rurale più lontano e più nascosto dalla vegetazione di querce e castagni, molto alti e folti. Aggiungo per dovere di cronaca un episodio tratto dalla ricostruzione degli eventi del 1943 fatta da Francesco Granata : “giorno 7 dopo la partenza di Don Ignazio per il palmento, un ufficiale tedesco si presenta nella Canonica. Trova Mons. Carciotto e gli ingiunge senz’altro di allontanarsi subito perché da un momento all’altro centinaia di mine saranno fatte brillare e sarà la fine di tutti e di tutto. Mons. Carciotto ha un momento di perplessità. Egli più che capire ha intuito il discorso dell’ufficiale tedesco ed in preda ad un grande nervosismo, gioca l’unica carta di cui dispone. Masticando come
meglio può le poche parole di tedesco che sa, risponde che lui non lascerà mai la chiesa e la canonica di Fleri. Qualunque cosa avvenga lui non si muoverà. Le sue parole sono talmente nette, decise e recise che l’ufficiale tedesco rimane impressionato. Al punto da sospettare che doveva esserci un motivo molto importante se quel prete, solo e inerme si opponeva così tenacemente all’invito di mettersi in salvo. Il colloquio si fa duro e ciò dipende anche dal fatto che il poco italiano che sa l’ufficiale tedesco e il poco tedesco che sa il Vicario non bastano a far intendere questi due. Segue qualche minuto di silenzio, durante il quale Mons. Carciotto e l’ufficiale tedesco si guardano negli occhi.
Attraverso lo sguardo vorrebbero comprendersi, dirsi tutto ciò che pensano. Frattanto all’ufficiale cade di mano la sigaretta. Mentre egli si china per prenderla ecco sgusciare e luccicare, tra collo e camicia, una catenina d’oro dalla quale pende una medaglia sacra.
Fu un lampo ed una rivelazione.
Bastò infatti a Mons. Carciotto la vista di quella medaglia sacra perché egli si rasserenasse e perché di colpo sbocciassero nel suo cuore mille speranze. Ora una grande fede invade l’animo suo. E divenuto d’un tratto fiducioso, egli si apre. Cercando infatti di farsi capire come meglio può confida a quell’ufficiale tedesco il grande segreto e l’assillo che lo tormenta e che tormenta, anche questo dice, il povero parroco che in quel momento è assente. L’ufficiale tedesco lo ascolta muto e immobile. Il suo volto mostra un turbamento che impensierisce Mons. Carciotto. Ma, ad un tratto, come se un’idea improvvisa lo illuminasse, dice che lui può ben poco; tuttavia, farà quanto è nelle sue modeste possibilità per evitare che le Reliquie di S. Agata corrano dei pericoli. Poi stesa la mano a Mons. Carciotto si accomiata affabile. Non si sa cosa fece l’ufficiale tedesco, tuttavia alcuni giorni dopo i pochi abitanti rimasti in paese videro che le truppe tedesche stavano partendo dopo aver smantellato postazioni difensive ed il resto, per creare una nuova difesa verso Milo, liberando Fleri e dintorni dal pericolo. Qualcuno gridò al “miracolo” .
Dalla “Cronaca” del giorno 8 sappiamo che c’era stato un “bombardamento senza tregua, circa 400 bombe cadono su Fieri e dintorni. Muore Gulisano Luciano, colpito da schegge di proiettile. Una granata colpisce la canonica, per cui si rompono tutti i vetri, cade la volta del bagno e dello stanzino. Si rompe la conduttura dell’acqua e si sconquassano le porte interne”. A causa di questo bombardamento aereo si sentono alcune forti esplosioni vicine e Padre Messina annota: “per il brillantamento delle mine del bivio, restano danneggiati l’orologio, il campanile, la facciate della Chiesa , l’organo e quasi tutti i vetri delle finestre”. Padre Ignazio, al vedere i Tedeschi abbandonare il paese, aveva tirato un grosso respiro di sollievo in quanto le Reliquie erano salve almeno per il momento. Passò la notte, e la mattina dell’8 agosto giunsero i primi contingenti inglesi. Questi allo stesso modo dei Tedeschi, si diressero verso la canonica e la chiesa che intendevano occupare per farne posti di medicazione, ma Padre Ignazio essendo tornato si oppose energicamente e vi riuscì. Non potendo più stare lontano dalla chiesa e quindi dalle Reliquie, di cui si sentiva responsabile diretto, Padre Ignazio era ritornato
in canonica e diligentemente aveva annotato ciò nella “Cronaca” che redigeva quasi giornalmente: “Sono contento che ho trovato il Divinissimo e le Reliquie di Sant’Agata, come i tesori della Madonna delle Grazie, nonché oro, titoli, calici d’oro della Cattedrale e le mie cose private, mercè un buon soldato austriaco: tale Hebert Scopianz il quale mi promise che avrebbe guardato tutto ed a cui ho regalato L.100, un Crocifisso d’argento e del vino, prima di lasciare la Canonica .
Il 9 di agosto tutte le truppe alleate entrarono in Fleri. Gli scozzesi, con il famoso kilt o gonnellino, suscitarono ilarità nella popolazione, che per l’occasione aveva lasciato le campagne circostanti e si era riversata nella strada principale per assistere al passaggio di tutte le truppe. Posto il loro quartier generale nella casa del dott. Sapienza, alcuni ufficiali e un cappellano cattolico scozzese si diressero verso la canonica per occuparla e farne degli alloggi decenti per loro. La chiesa poteva benissimo servire come ospedaletto da campo. Padre Messina, classe 1892 e soldato di Sanità del primo conflitto mondiale, sacerdote zelante ed energico, cedette all’occupazione della canonica ma non volle sentir parlare della Chiesa eventualmente occupata. Cominciò ad adirarsi e a parlottare in italiano con il cappellano militare padre Giacomo Graham. In questo caso il canonico fu ben consigliato dal cappellano che gli suggerì di non opporsi e di non fare pazzie, perché tutto sarebbe filato alla perfezione e la Chiesa non avrebbe ricevuto alcun danno.
Scongiurata l’occupazione della chiesa, i due diventarono buoni amici, anche perché accomunati dallo stesso abito talare.
Così l’energico curato, che si era già opposto ai Tedeschi, si rassegnò e cedette pacificamente alcune stanze della canonica ai suoi ultimi ospiti stranieri (due ufficiali medici e il cappellano, P.Giacomo Graham). In quei giorni Fleri era un deserto, sia per la calura che per i continui bombardamenti e cannoneggiamenti: tutti gli abitanti erano scappati nelle campagne vicine dove non c’erano case, “casedde” e grotte laviche che non fossero occupate da intere famiglie di sfollati, nascosti per essere più al sicuro. Anche i palmenti servivano egregiamente a questo scopo. Intanto Padre Ignazio, per cercare di comprendere meglio le intenzioni degli Inglesi, aveva stretto amicizia con P. Graham. Quest’ultimo avendo studiato a Roma, conosceva bene l’italiano e manteneva i rapporti tra le autorità inglesi e quelle italiane, man mano che gli alleati avanzavano verso Messina.
Forte del fatto che il cappellano era cattolico e conoscesse bene la nostra lingua, Padre Messina lo invitò ad officiare una funzione per i suoi soldati cattolici e per i pochi abitanti rimasti in paese. Il cappellano accettò di buon grado ed il 13 agosto celebrò una messa sul sagrato della Chiesa, per l’occasione pieno di soldati e di paesani, attirati dalla novità di un celebrante straniero e dalla presenza di tanti militari scozzesi e inglesi cattolici, silenziosi e attenti al rito religioso.
Alcuni giorni dopo, il 16 agosto, Padre Graham, notati i gravi danni della chiesa, fece una colletta tra i suoi soldati e raccolse “4 sterline” (circa 6 mila lire italiane di allora) che donò a Padre Ignazio, per cominciare le riparazioni più urgenti.
Gli Inglesi stettero più di un mese a Fleri, mentre il paese con il ritorno di parecchie famiglie sfollate cominciava lentamente a riprendere la vita abituale. Continuava però il caldo afoso che da giugno imperversava nella zona. Prima di partire, il rev. Graham lasciò una foto con dedica a Padre Ignazio, il quale, non fidandosi ancora completamente degli Inglesi, non aveva osato dire al confratello cosa c’era dietro la Chiesa. Il canonico respirò a pieni polmoni quando il 15 settembre vide i soldati Inglesi e gli ospiti della stanza da studio della canonica, prepararsi a partire verso Linguaglossa dietro le truppe tedesche, che lasciata Messina, stavano sbarcando ordinatamente sulla costa calabra. Aveva gioito Padre Messina quando i Tedeschi avevano lasciato il paese, ma si rallegrò ancor di più quando, dall’ingresso della canonica, vide sfilare ordinatamente le truppe inglesi e scozzesi verso Milo e quindi verso Messina. Capì subito che il momento critico per Fleri era passato e che la guerra per il paese sarebbe stata solo un brutto ricordo. Un veloce pensiero andò alle Reliquie, già salve, ma il canonico lo scacciò subito poiché si accorse amaramente che aveva molto da pulire, riparare, periziare in canonica e nella chiesa, gravemente danneggiata dai continui bombardamenti. Complessivamente il paese era uscito bene dall’invasione alleata in cui si era venuto a trovare. L’avventura bellica era finita. Restavano le reliquie e tutto il resto da riportare a tempo opportuno a Catania.
5 . Il ritorno delle Reliquie a Catania
Intanto ritornato a Catania, Mons. Carciotto aveva pensato a come riportare in città le preziose Reliquie, per preservarle dall’umidità dove si trovavano, e proteggerle principalmente da eventuali malintenzionati. Già il lunedì 20 settembre 1943, giornata calda e calma, il Vicario con l’aiuto di un altro religioso aveva portato via il tesoro della Madonna delle Grazie e un calice d’oro. Constatando che era giunto il momento favorevole per il ritorno delle Reliquie, prese accordi con un cappellano benedettino inglese, Padre Nicola Holman e ottenne da lui precise garanzie e con il permesso degli Alleati e di Mons. Patanè, predispose tutto per il 26 settembre 1943. Nel primo pomeriggio di quella domenica Padre Holman partì da Catania con una Jeep dell’esercito inglese ed un’autoambulanza militare, ambedue guidate da autieri inglesi cattolici. Con lui c’erano il Vicario, due cappuccini 42 e due cappellani militari inglesi. Intanto a Fleri il canonico Padre Ignazio, avvisato della venuta degli Alleati e dei religiosi, aveva fatto tirar fuori la cassa ed era già in attesa del Vicario e del gruppo. Si sentiva tranquillo ed anche intimamente felice, in quanto era cosciente che la missione affidatagli era stata espletata completamente, con l’aiuto della Provvidenza e di tutti quelli che avevano avuto un ruolo importante o secondario nella vicenda.
I resti mortali di S. Agata lasciavano così la Chiesa dove erano rimasti per 134 giorni amorosamente custoditi, protetti da Padre Ignazio, devoto e sensibile guardiano.
Sempre per dovere di cronaca riporto un articolo di Luigi Costanzo pubblicato
sul “Corriere di Sicilia” che così narra la partenza delle Reliquie da Fleri: “Viene presa la cassa che di già racchiude tutto il tesoro Costanzo aveva affermato nell’articolo che anche il tesoro finì a Fleri vien messa nel centro della Chiesa. Suonano le campane. Il popolo ha un fremito. Non sapeva. Sa. Accorre. Piange. Si inginocchia. Il Vicario dice l’”Oremus”. Si piegano in ginocchio i tre cappellani militari alleati. Non possono trattenere le lacrime. Poi si alzano. Chiedono l’onore di portare la cassa a spalla. Escono dalla Chiesa di Fleri, tra il popolo – ci sono molti catanesi – e i soldati sui cui volti si leggono i segni della più viva impressione e il dolore. Ritornano a Catania, la città che le ama e le custodisce col cuore . Questa la versione dell’avv. Costanzo, non so quanto aderente alla realtà dell’avvenimento e che ho riportato per avere un quadro completo dei fatti.
Si concludeva così l’avventura delle Reliquie, che dopo il turbine della guerra, ritornavano al loro luogo d’origine. In curia si pensava di esporle al più presto possibile alla vista dei fedeli catanesi, da lungo tempo privi della visione dei sacri resti della Patrona, conservati nei reliquiari e nascosti in una “romita” chiesa. Restava ancora da riportare parte del tesoro nascosto prima nel Seminario di S. Giovanni La Punta e poi in una cucina del Collegio delle Orsoline nello stesso paese. Ma a questo pensarono in un secondo momento l’Arcivescovo e il Vicario e solo nel dopoguerra le due parti del tesoro (quella delle Orsoline e quella murata dietro la camera di S. Agata nella stessa Cattedrale) furono riuniti e ai reliquiari e alle altre ricchezze della Santa catanese. Passata la guerra e riportate le Reliquie a Catania sull’intera vicenda cadde l’oblio più completo, rotto solo nel 1948 dall’iniziativa dell’Associazione di S. Agata al Carcere di Catania di collocare una lapide sulla facciata della Chiesa di Fleri, a perpetua memoria degli avvenimenti passati. Infatti, il 13 giugno di quell’anno in segno di ringraziamento e per esternare a tutti i fatti dell’estate 1943, partì da Catania un pellegrinaggio organizzato dall’”Associazione S. Agata al Carcere”. Dopo una solenne cerimonia religiosa sul lato destro della facciata della Chiesa fu collocata una lapide di marmo con la seguente scritta:
“L’ASSOCIAZIONE S.AGATA AL CARCERE QUI CONVENUTA DA CATANIA
IN DEVOTO E SOLENNE PELLEGRINAGGIO IL 13 GIUGNO 1948
TRAMANDA AI POSTERI
CHE LE VENERATE INSIGNE RELIQUIE DI S.AGATA
SOTTO LA FURIA DEL TURBINE DELLA GUERRA NEL TRAGICO LUGLIO 1943
IN QUESTA ROMITA CHIESA FURONO
AMOROSAMENTE CUSTODITE”
L’epigrafe fu dettata da Mons. Arcangelo Fragalà del Capitolo Metropolitano.
Oggi, a 48 anni di distanza, con una migliore conoscenza di quegli avvenimenti possiamo ben affermare che fu Padre Ignazio il perno sui cui ruotarono gli avvenimenti della canonica. Si dovette al suo suggerimento a Mons. Carciotto
di seppellire le Reliquie nella cisterna, nascondiglio dimostratosi poi ottimale.
Per evitare qualunque danno ai sacri resti il canonico vegliò giorno e notte, sentendosi solo ed unico responsabile. Infatti Mons. Carciotto Patanè, malandato in salute e sfollato prima a S. Giovanni La Punta e poi a Milo, dove poi era rimasto tagliato fuori dal succedersi repentino degli avvenimenti. Parecchie volte il canonico saltò fuori dal letto per sincerarsi di persona che tutto andasse bene nella cisterna e più di una volta gli balzò il cuore in gola alla vista di truppe tedesche in ritirata. Non era facile decidere cosa fare con una pistola tedesca puntata sulla tempia, ma Padre Ignazio mantenne un contegno sempre imperturbabile e non fece capire, anche se dovette confidarlo a qualcuno, il grande peso che grava sulle sue spalle. E non fu cosa da poco, dati i momenti difficili. Il religioso mantenne lo stesso atteggiamento all’arrivo delle truppe inglesi che volevano spodestarlo dalla canonica. Fu grazie alla presenza del Cappellano P.Graham se la situazione si normalizzò subito, ma per il canonico furono sempre momenti terribili e interminabili. Infatti, gli ospiti della canonica avrebbero potuto scoprire da un momento all’altro i preziosi reliquiari nascosti. E non sarebbe stata cosa semplice spiegare quella presenza e la mancanza del tesoro, cercato inutilmente dall’Alto Comando Inglese, appena occupata Catania, il 5 agosto. E tutto ciò fa apprezzare l’azione del canonico, stante la precarietà di quei giorni, quando tutto il paese poteva saltare in aria per lo scoppio delle mine che gli artificieri tedeschi avevano posizionato nei dintorni del bivio, a due passi dalla chiesa. La collocazione della lapide nel 1948 ruppe il primo periodo di silenzio sulle vicende del 1943. Parecchie notizie affiorarono con le pubblicazioni di articoli giornalistici nel 1948, nel 1953, nel 1956 e nel 1967. Tuttavia, in tutti questi scritti rievocativi, la figura del canonico rimane nascosta, quasi non fosse stato lui il diretto responsabile della chiesa di Fleri, ove si svolsero gran parte dei fatti, in modo silenzioso e per questo ignorati da tutti. La persona di Padre Ignazio risultante importante anche dal punto di vista storico, in quanto fu lui che annotò nella “Cronaca” tutti gli avvenimenti bellici che interessarono Fleri e dintorni. Ed è grazie ai suoi appunti che noi oggi possiamo ricostruire anche l’atmosfera che regnava nel paese e lo stato d’animo dei Fleresi in quei fatidici giorni. Quei suoi appunti, stilati con foga ed in momenti critici, quali potevano essere i bombardamenti e la fuga dalla canonica, risultano preziosissimi, soprattutto unici.

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